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Neutralità e dignità di Internet

Noi tutti abbiamo pensato a lungo che l'abbondanza e la libertà di accesso alle informazioni e soprattutto la loro gratuità fossero valori elevati, irrinunciabili di Internet. Abbiamo visto l'avvento e l'affermazione della rete come la nuova frontiera e qualcuno, più ottimista ancora, ha letto in questa rivoluzione digitale una pacifica rivoluzione umana. Ma come si suol dire non è tutto oro quel che luccica, e anche quelli che non sono nativi digitali e che hanno vissuto l'arrivo della rete come la più grande novità dei nostri tempi, una volta liberati della sbronza iniziale dell'ottimismo, stanno iniziando ad apprendere (a volte anche sulla propria pelle) quale sia uno dei lati oscuri di Internet.

La rivoluzione digitale non si è ancora conclusa e siamo lontani dal momento in cui i software saranno in grado di soppiantare in tutto e per tutto il lavoro umano. La produzione industriale manifatturiera sebbene impieghi a dosi massicce ingenti capitali che possiamo chiamare digitali (robot nel processo di produzione), in larga parte è ancora profondamente di competenza dell'uomo; la sanità pubblica o privata richiede l'ausilio di strumentazioni sofisticate, ma il controllo e l'attività umana è prevalente così come l’istruzione, la produzione energetica, i trasporti. Comunque rimane corretto e possibile immaginare un futuro non molto lontano in cui automobili, camion e treni saranno guidati da software, stampanti 3D saranno in grado di produrre tutto ciò di cui abbiamo quotidianamente bisogno o quasi, soppiantando la produzione industriale, robot saranno in grado di occuparsi dei nostri malati e dei nostri anziani.

In un eccesso di ottimismo potremmo vedere in questa evoluzione una futura società auspicabile, in cui ci sarà disponibilità di beni e servizi a prezzi irrisori se non gratuiti e in cui tutti potranno disporre del necessario per una esistenza dignitosa e appagante. L'economista e attivista statunitense Jeremy Rifkin l'ha chiamata "società a costo marginale zero". Tuttavia se davvero presto o tardi tale società si realizzerà, il problema sarà nella transizione dall'attuale società orientata alla produzione industriale tradizionale, in cui chi ha un lavoro e guadagna è in grado di garantirsi, anche se non sempre, un'esistenza dignitosa e chi invece non è in grado di lavorare o viene escluso in qualche modo dalla produzione tradizionale deve sperare in una assistenza pubblica, spesso inferiore al livello di sussistenza.

Con la rete e la tecnologia stiamo trasformando la nostra società, rendendo però le persone gradualmente più povere e concentrando sempre più le ricchezze in mano a pochi. Stiamo realizzando cioè una società in cui nel lungo periodo una migliore tecnologia, spina dorsale del turbo-capitalismo, implicherà dosi massicce di disoccupazione o anche di iperdisoccupazione. Questo è un timore che si consolida nel cuore e nelle menti di molti pensatori e futuristi. Lo stesso Rifkin è stato il primo a studiare il problema con la sua pubblicazione (nel 1995) dal titolo "La fine del lavoro: Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato" diventato subito un best seller internazionale. Tuttavia questo aspetto, a mio avviso, non è del tutto negativo e indesiderabile. Mi spiego. Se con la tecnologia, la digitalizzazione dei processi produttivi, se con Internet e l’intelligenza collettiva arriviamo a raggiungere gradi di efficienza e produttività tali da non richiedere più un elevato numero di ore lavorate da un uomo per garantirci un'esistenza piena e soddisfacente, allora il "lavorare meno" o il "lavorare meglio", inteso come concentrarsi in quelle attività di mero controllo o di ideazione e di innovazione, non è un danno ma un vantaggio. Il problema sta però nel saper ridistribuire con sapienza la ricchezza in tal modo prodotta grazie alla trasformazione digitale e robotica. Ora… non chiedetemi di risolvere il rebus delle redistribuzione, perché non ho le risposte a tutte le domande, ho solo la mia intuizione di fondo, una sorta di auspicio per il futuro! 

“Lavorare meno, lavorare meglio” sembra uno slogan politico, per me è semplicemente un'ispirazione di vita. Le norme sociali, l'adattamento, il livello di reddito e il confronto con i propri pari non spiegano completamente perché il lavoro ci faccia vivere una vita ricca di significato.

Ci sono studi che hanno evidenziato che i liberi professionisti, sebbene lavorino più ore rispetto ai lavoratori dipendenti - spesso guadagnando anche meno - mostrano una soddisfazione maggiore nel proprio lavoro. Lo stesso succede ai volontari di associazioni no profit. L'indipendenza, l'auto-determinazione, la libertà, la capacità di seguire le proprie aspirazioni, la possibilità di creare e la realizzazione delle proprie idee o di incidere positivamente nel mondo creando il cambiamento che si desidera, ti fanno raggiungere un grado di soddisfazione impagabile e incommensurabile. La spinta emotiva, il determinare obiettivi personali e raggiungerli, vivere in uno stato di soddisfazione costante è un bel modo per vivere, che trascende dalla mera ricerca di una occupazione.

L'economia, specie dopo l'avvento dell’era digitale, non manterrà la propria promessa di creare più posti di lavoro di quanti ne distrugge. Molti possono disapprovare questa affermazione, presi dalla smania di mercato e "mercatismo", e possiamo anche discutere a lungo sull'argomento. Possiamo però impegnare meglio il nostro tempo cambiando prospettiva di pensiero, abbandonando il presupposto che si debba guadagnarsi la pagnotta! Continuiamo a inventarci posti di lavoro, scarsamente produttivi e alle volte anche inutili per garantire un reddito al maggior numero di persone possibile; molti dei concorsi pubblici nella storia del nostro paese infatti sono stati fatti in sostituzione di ammortizzatori sociali. Perché impieghiamo tante energie e risorse per creare lavori inutili o scarsamente produttivi invece di concentrarci sul modo più semplice per ridistribuire l'eccesso di produzione e di ricchezza altrimenti prodotto?

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