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L'intelligenza collettiva crea valore e genera povertà

Quotidianamente produciamo e condividiamo informazioni. Foto, tweet, pensieri, video, ogni nostra azione sui social network diviene produzione di nuovi contenuti. In questo contesto tutti noi partecipiamo alla generazione o alla produzione del contenuto che costruisce l'archivio delle nostre vite quotidiane e spesso lo lasciamo accessibile al pubblico. Diventiamo mappabili. 

Tutte le forme di espressività online, i vasti archivi sulle vite quotidiane dei soggetti, costituiscono una forma di progressiva codificazione delle abitudini degli individui e di collettività e quindi le ricerche che vengono svolte sulla base di questa grande mole di informazioni liberamente accessibili diventano uno strumento per individuare modelli di habitus in relazione ai consumi ad esempio, ma anche a visioni politiche, opinioni diffuse, sentiment, istruzione, lavoro, educazione di popolazioni ecc. Diventano evidenti le strutture relazionali e le "strutture sociali". 

Tali informazioni, sebbene non richiedano alcun passaggio di denaro tra coloro che producono e coloro che le raccolgono - visto che sono su base puramente volontaria - non sono tuttavia un bene privo di valore. Al contrario questo flusso di informazioni contribuisce a creare i cosiddetti "Big Data" che sono divenuti ago della bilancia del potere e della capacità d'influenza sulla rete e nell'economia reale. Facciamo un esempio. Nella finanza è di strategica rilevanza disporre di banche dati, mentre i tecnici e gli analisti di big data stanno diventando tra i professionisti più pagati con contratti esclusivi. I politici, sempre alla ricerca del maggior consenso elettorale, si basano sull’analisi e la valutazione del comportamento delle masse per comprendere le tendenze e intercettare gli interessi.

Questo processo di apprendimento, di previsione e di influenza ha un valore inestimabile per chiunque abbia necessità di vendere un prodotto o diffondere e far affermare un’ideologia politica.

Il meccanismo secondo cui si crea povertà

Le informazioni che cediamo gratuitamente in un certo senso lavorano contro di noi, poiché ci rendono sempre più obsoleti, abbattono i costi delle professioni intellettuali e non. Esempio emblematico è quello delle traduzioni delle lingue. Google translate apprende da ogni nostra correzione, da ogni nostro feedback e non molto lontano renderà obsoleto il traduttore professionista in carne ed ossa. Questo processo di obsolescenza coinvolge molte professioni che oggi conosciamo e che un domani con molta probabilità scompariranno. 

A professioni che scompaiono corrispondono spesso altre che si creano come tutte le professioni legate all'analisi dei nuovi dati, e alla gestione di moli sempre più grandi di dati disomogenei; ossia quindi quelle professioni che si occupano di cloud computing. Nascono anche nuovi modelli organizzativi del lavoro ancora tutti da sperimentare e analizzare come lo smart manager e lo smart working. La questione fondamentale non è se la generazione di nuove professioni sia sufficiente a compensare la distruzione delle vecchie professioni, quanto piuttosto se l'era digitale e tecnologica non finirà per annientare del tutto la produzione tradizionale, quella fondata sulla produzione di beni. Lancio qui una domanda che è quasi una provocazione: se il modello di business online è prevalentemente di tipo pubblicitario e se la pubblicità è riferita ai beni prodotti dalla produzione industriale, quando la produzione digitale avrà contratto oltre certi livelli la produzione industriale tradizionale, quale modello di business online dovremo inventare per tenere in piedi baracca e burattini?

Una proposta per invertire l'ordine delle cose

Ogni scambio di informazione e di condivisione di nuovi contenuti online crea valore e laddove si crea valore si dovrebbe ricevere una qualche forma di remunerazione del lavoro svolto. Jaron Lanier, l'autore de "La dignità ai tempi di Internet", propone un modello di sviluppo, una sorta di diritto d'autore diffuso secondo il quale ad ogni informazione rilasciata nella rete corrisponda una remunerazione per quanto infinitesimale. E tale remunerazione deve provenire, secondo l'impostazione di Lanier, da chi si avvantaggia dell’informazione stessa, sia esso una piattaforma (Google, Facebook, Twitter ecc), un'organizzazione, un'azienda. 

Sul fronte dei media, invece, più difficile appare la battaglia dei giornali e delle riviste online per ottenere dalle piattaforme aggregatrici come Google il pagamento dei diritti per i "ritagli" che compaiono quando si fa una ricerca (la maggior parte dei quali non viene cliccata). Proprio il colosso di Mountain View, nonostante avesse promesso di seguire la regola etica dell'anonimato delle informazioni, ossia di non accoppiare mai le informazioni identificative dei suoi utenti con le azioni che tali utenti compivano sul web tramite la sua piattaforma, ha infranto tale "promessa" e ha cominciato a tracciare ogni singola azione associata ad ogni singolo utente. È svanito così l’ultimo baluardo della tutela della privacy, sebbene fosse già fragilissimo. La conseguenza è che Google ha fornito pubblicità ancora più mirata e costruito profili dettagliati sui suoi utenti basati sulle attività di ciascuno (in gergo tracking) ovvero sulla base di quello che ciascuno di noi fa online; dalle ricerche che svolgiamo nel web ai siti che visitiamo. Un simile patrimonio informativo di fatto non ha prezzo. A maggior ragione è valida tale considerazione se valutiamo quanto concentrato e monopolistico stia diventando il mondo del web.

Lo scorso giugno, Google ha annunciato che Gmail non mostrerà più annunci pubblicitari basati sui contenuti delle proprie email. Sulla versione gratuita di Gmail (sembra non in G Suite) gli annunci pubblicitari continueranno a essere mostrati, ma i loro contenuti saranno regolati sulla propria cronologia delle ricerche tramite Google e YouTube. Un passo indietro? Staremo a vedere.

Chi vince prende tutto

Allo stato attuale lo scambio di informazioni avviene in un mercato specializzato che non coinvolge i produttori, ma soltanto gli immagazzinatori e gli utilizzatori finali. In questo nuovo mercato i server, gli immagazzinatori di dati appunto, i colli di bottiglia, diventeranno sempre più gli oggetti del contendere nella battaglia per il potere e la ricchezza da un lato e per la sicurezza aziendale, nazionale e mondiale dall'altro. L'idea che il digitale generi soltanto cambiamenti positivi e sia lo strumento perfetto per lo sviluppo della democrazia corrisponde ad una grande ingenuità e si finisce per sottovalutare la problematicità dei nodi geopolitici sottostanti al suo funzionamento, e impedisce di cogliere, in questo modo, il lato più oscuro di Internet.

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